Sentivamo tutti il bisogno di una nuova certificazione, un altro bollino colorato che identifichi i virtuosi, i giusti, che ci indichi la Via. Una nuova promessa di cambiare il mondo semplicemente acquistando il giusto prodotto, nessuna vera penitenza, nessun percorso di espiazione e consapevolezza, solo una semplice transazione economica, come si fa per garantirsi il Paradiso.
Com’è possibile che il nemico si sia appropriato delle nostre armi e le stia rivolgendo, ancora una volta, proprio contro di noi? Com’è stato per il BIO (che Dio lo abbia in gloria), ancora una volta la Grande Distribuzione si è saputa appropriare delle istanze di cambiamento dal basso, le ha neutralizzate, gli ha dato un prezzo e le ha messe sul mercato per speculare sul senso di colpa dei sedicenti peccatori. Niente di più facile, se le stesse istanze già sono state depotenziate dai novelli riformatori, trasformate in culto per per dichiararsene sacerdoti e ridotte ad uno scimmiottamento del sistema che si vorrebbe modificare.
La critica all’agricoltura intensiva e la necessità di una sua riforma, con pratiche più consapevoli e sostenibili, ci trova tutti d’accordo. Il problema, come sempre, è l’applicazione dei principi e la loro compatibilità con il sistema economico che ci ingabbia. Se preferisci essere un imprenditore agricolo che un agricoltore, è perché temi di sembrare un bracciante. Se nella tua lotta sei troppo affannato ad accreditarti come unica alternativa, se monetizzi il consenso e quindi sei obbligato ad inseguirlo, stai solo garantendo lunga vita al Mercato, ora purificato dalla colpa grazie alla tua intercessione. In alternativa ad un’azione coerente, preferisci vendere una comoda via di mezzo, un cambiamento al ribasso, che conserva i presupposti del peccato: l’ossessione per la produttività e la conservazione del sistema.
Questa non è rivoluzione, è adattamento. Il profitto resta intatto, incassi una rendita mascherata da rifondazione, ovviamente la migliore possibile. Hai creato un brand, per renderlo sostenibile sei disposto al compromesso più odioso: chiamare il lavoro volontariato, sostituire il salario con vitto, alloggio e al massimo un po’ di formazione, renderlo appetibile per chi è sufficientemente libero dalle aspettative o dal bisogno da permettersi “l’esperienza”. La collettività che offre le braccia in buona fede non partecipa ai profitti, in realtà non riceve altro che il plauso del Maestro. Se il prodotto è una dottrina, non ha bisogno altro che di devoti per essere venduto. La devozione richiede una certezza: tu sei la soluzione al problema. Hai creato l’ennesimo falso bisogno da soddisfare nel consumatore e fornito all’agro-industria gli strumenti per ricostruirsi una verginità.
La porta ora è aperta per chi veramente saprà sfruttare quel capitale a proprio beneficio e a danno di tutti.
L’ecologia adattata al capitalismo è un paradosso inaccettabile. Il capitalismo è sfruttamento intensivo, è il predatorio fino al cannibalismo nella sua stessa essenza. Presuppone l’accentramento delle risorse, la separazione dell’utile dall’inutile, secondo solo il proprio vantaggio. L’ecologia è invece diversità e sottile equilibrio, ma soprattutto coesistenza. Riconoscere questa verità ci obbliga per coerenza, come azienda agricola che dice di perseguire la custodia del territorio, a rifiutare il falso dilemma che limita la scelta a capitalismo o miseria. Per farlo, dobbiamo come prima cosa mettere in dubbio le premesse del sistema, produttività per il profitto come scopo e posizionamento sul mercato come guida, e cambiare le finalità del nostro agire. La co-esistenza di modelli complementari, la diversità come ricchezza da difendere, negli ambienti e nei punti di vista, deve essere il primo imperativo.
La produttività non deve e non può essere l’unico parametro per validare una pratica ecologica.
Senza proporre alcun martirio o guerra santa, cerchiamo di promuovere la creazione di un gruppo di affini, non di un cartello. Come pensi di sconfiggere i campioni del sistema al loro stesso gioco, se copi le loro parole e segui i loro i comandamenti?
Forse è arrivato il momento di scrivere i nostri:
- Non avrai alcun Profeta, alcun dogma, alcuna soluzione valida per tutti.
- Non nominare il nome della sostenibilità invano.
- Ricordati di non santificare te stesso.
- Onora il suolo povero, come quello ricco.
- Non sfruttare, usa.
- Non tradire la vocazione della tua terra.
- Non accumulare, quindi non rubare.
- Non mistificare le parole degli altri. Ascoltale anche se danno fastidio.
- Non valutare gli altri da quanto producono.
- Non desiderare l’habitat degli altri.
Proponiamo un modello di agricoltura senza etichette, che rispetti le vocazioni del territorio senza pretesa di insistere nelle colture inadatte, anche se più redditizie, che consideri come una risorsa l’interazione con l’esterno, anche quando questa è potenzialmente dannosa. Che valuti l’opportunità di derogare ad alcune produzioni affinché possa prendersi cura di ciò che la natura ci chiama ad osservare. Critica in ogni contesto, libera da dogmi e pretese di diventare modello per altri, un’agricoltura sincera, trasparente, che non sia ostacolo alla condivisione delle risorse con la collettività, fondata sul sostegno anziché sulla competizione.
Un’agricoltura che sia di tutti, che non escluda, ma che livelli sul piano esclusivo del bisogno, lasciando che i beni di prima necessità siano poco onerosi e disponibili a tutti, non solo a coloro che possono permetterselo, alla disperata ricerca dell’eccellenza.
A chi sente risuonare queste parole, diamo il benvenuto, impazienti di intavolare un confronto che possa ampliare, arricchire e modificare ogni singolo concetto.
A quelli che dicono che i tempi non sono maturi rispondiamo semplicemente che, a forza di attendere il momento perfetto, iniziano a puzzare di marcio.