La Giustizia non ha detrattori. Tutti la riconosciamo come uno dei tre presupposti necessari, assieme a Libertà e Verità, per realizzare qualunque Utopia.
Questi tre assoluti si perfezionano solo se coesistono. Hanno infatti bisogno l’uno dell’altro per non degenerare nel proprio opposto.
Così la libertà troverà i suoi limiti naturali nella giustizia per evitare di trasformarsi in arbitrio, la giustizia nella verità per non essere cieca, e quest’ultima di nuovo nelle libertà per non essere zittita.
Sul piano teorico siamo tutti d’accordo, per una volta.
La Giustizia si fonda sul principio di dare a ciascuno ciò che gli spetta. È quindi equilibrio ma sopratutto riconoscere la reciprocità come premessa: dei diritti, dei doveri e nel riconoscersi pari.
Anche qui nulla da eccepire.
A un certo punto nella Storia la Giustizia smette di essere una virtù, anzi, la pratica della virtù perfetta verso gli altri, un’aspirazione di rettitudine personale costata anni di studio e applicazione. Diventa altro, viene fatta coincidere con le le leggi che gli uomini si sono sempre dati per gestire gli affari quotidiani, compressa dentro i codici. Diventa talmente complessa da necessitare esperti per poterla applicare. Il controllo della legge e quindi della giustizia trasforma presto la vocazione in privilegio, gli esperti in casta e la giustizia in uno strumento di potere. La legge si riempe di cavilli e tecnicismi per essere certi di essere capaci di aggirare il principio in caso di bisogno.
Imperatori, sovrani e vescovi e, dopo di loro, lo Stato se assicurano il controllo, pretendendone il monopolio. Giustizia diventa solo un sinonimo di legalità, o meglio di ciò che quello un Governo, un Re o un Papa ritengono legale in quel momento.
Come può un assoluto ridursi a un concetto così relativo, arbitrario, mutevole come la volontà degli uomini? Per quanto ci sforziamo a ispirarle a nobili principi, le leggi sono condannate alla fallibilità dei loro creatori, sottomesse alle contingenze, al costume e agli egoismi di chi ha il potere di scriverle o farle rispettare. Ed ecco che Giustizia si riduce a una speranza.
Qua qualcosa da eccepire già si intravede, ma per il momento diamo per scontato che, per evitare il caos, bisogna pure dare una forma umana ad un’idea così nobile e, quindi, ne accettiamo i limiti, le contraddizioni e i pericoli. Lo Stato, che in democrazia è espressione del popolo, garantisce. La giustizia umana resterà sempre una pallida imitazione di quella naturale ma è il meglio che siamo riusciti a fare.
Alcune volte però la parodia è talmente sfacciata e malfatta da non guardare in faccia nemmeno una tragedia e da pretendere di trasformarla in farsa.
Qui, signori, forse è arrivato il momento di eccepire.
Una ragazza uccisa diciotto anni fa, il di lei fidanzato sospettato, indagato e condannato a sedici anni anni di galera in nome del popolo, dopo 8 anni dal delitto e due assoluzioni in tribunale. Riflettori puntati, un circo che si è nutrito di ogni singolo dettaglio per digerirlo parzialmente e sputarlo sulla pubblica piazza, ogni sforzo per assicurarsi che tutti potessero farsi un opinione.
Dieci anni dopo lo stesso Stato che ha emesso la sentenza, riconosce alcuni limiti nel processo e quindi pretende di ricominciare da capo la giostra con la verginità intatta.
Dopo diciotto anni.
Senza nemmeno porsi la domanda immediatamente successiva al dubbio sulle proprio operato: Che ne faccio di quello in galera? O, peggio, se l’è posta e ha semplicemente scelto di ignorare l’elefante nella stanza, anche se sono secoli che abbiamo stabilito che il dubbio è inaccettabile e che gli elefanti, prima o poi, sfasciano tutto.
Ed ecco di nuovo Dio che pretende di essere onnipotente e incolpevole del male.
Noi, anziché chiedere conto di tanta sciatteria a coloro che esercitano il monopolio della legge, promulgano norme, custodiscono il diritto e dispensano le punizioni, ci lasciamo un’altra volta distrarre dal noir, dal buco della serratura, dall’esigenza di avere un opinione in un mondo dove averne una è la sola prova di esistenza. Spostiamo l’attenzione sul nuovo intrigo anziché sul colpevole evidente.
Lo Stato è colpevole di omicidio plurimo.
Lo Stato ha ucciso, in un colpo solo, la Verità che si deve ai morti, la Giustizia che si deve ai vivi e forse anche la Libertà di un uomo.
Lo Stato non può giudicare nessuno, meno che mai punirlo, finché non ci dirà quale pena è commisurata a questi delitti.
Lo Stato deve dirci se la Giustizia in nome della quale agisce sia quella che conosciamo tutti o se l’ha sostituita con un’omonima più condiscendente.
Lo Stato deve assumersi la responsabilità di ciò che viene fatto in suo nome o che fa nel nostro.
E già che abbiamo iniziato ad eccepire.
È forse arrivato il momento di non accettare come dato scontato che caos, violenza e prevaricazione siano l’unica alternativa a questo sistema e che, per questo, vada accettato come necessario. Unico argine contro gli Unni, i Turchi, i Saraceni, i Pirati, gli Anarchici o qualunque altro barbaro pronto ad approfittare del meraviglioso Occidente e renderlo un luogo di sofferenza. Che sia imperfetto, spesso ingiusto ma traboccante di buone intenzioni. È solo una favola che continuano a raccontare per farci restare bambini.
La stessa logica fallace ci costringe a chiamare Giustizia ciò che serve per restare immobili, Verità quello che fa comodo per non dover dubitare di nulla e Libertà il minimo indispensabile per non farci sentire schiavi.
Ecco, tanto per essere chiari.