C’era una volta una piccola isola chiamata Inghilterra.
Per darvi un’idea della abbondanza che l’aveva benedetta -e quindi quanti Signori potesse vantare- mi basterà dirvi che era per lo più abitata da pecore e servi. Le contese su chi ne avesse di più, e le conseguenti guerre, erano diventate talmente frequenti da costringere il più fornito di entrambi -e quindi il più rispettato- a proclamarsi arbitro e giudice dei suoi pari. Cominciò così a farsi chiamare Re e a dettare la Legge.
Alla maggior parte di noi dovette sembrare un’idea brillante: barattare le tante pretese di altrettanti nobiluomini con quelle di uno soltanto, scelto poi dal Padreterno in persona.
Se non era cambiato un granchè nella vita di pecore e servi -continuavano a obbedire alle stesse leggi di prima, uguali per entrambi- noi, contadini e braccianti, avevamo almeno smesso di dover combattere tra vicini. Ci limitavamo a qualche guerra al di là del mare, qualche corvèe per il Lord di turno e qualche decima per garantirci il Paradiso. I problemi cominciarono -o meglio la situazione diventò davvero intollerabile- quando, alla morte di uno di questi sovrani, i Lord e i Cavalieri decisero di non provare abbastanza rispetto per l’erede legittimo, o almeno non tanto da continuare a limitare i propri appetiti. Ricominciò la competizione senza freni.
I migliori figli degli Angli per poter aumentare velocemente il numero di pecore o di servi (avrete a questo punto capito che erano considerati allo stesso modo) avevano sempre più bisogno di nuovi pascoli da sfruttare e quindi di nuove proprietà per ampliare i loro latifondi.
In una terra pur così generosa i proprietari erano già tanti e, a questo punto della storia, non era rimasto loro molto da spartirsi per soddisfare quel prurito. Ad eccezione delle Terre Comuni. Fino a questo momento i Re le avevano garantite in uso a tutti quegli inglesi che non si potevano contare né tra le pecore né tra i servi, a tutti i sudditi insomma. Ora che l’infallibilità della corona era stata messa in discussione, i Signori di tutte le Contee si trovarono sorprendentemente d’accordo nell’attaccare quello spreco e ad assicurarsi che quelle terre fossero finalmente utilizzate al massimo della loro capacità produttiva, come Dio aveva sempre comandato.
John Flowerdew non era un Lord e nemmeno Cavaliere, ma qua, a Wymondham nella contea di Norfolk, si era assicurato gli stessi privilegi accumulando la stessa quantità di possedimenti di quelli con nomi altisonanti . Da bravo cattolico, non aveva guardato in faccia a Dio quando si era trattato di spartirsi tra pari i resti della nostra amata abbazia, che un Enrico tempo prima aveva sciolto per arricchire i suoi fedeli. Non ebbe maggior riguardo per quei quattro straccioni che campavano a stento coltivando un po’ di grano e pascendo qualche pecora nelle terre che, ostinatamente da secoli, rifiutavano il privilegio di vantare un proprietario. Non ci pensò un attimo, come quelli con un titolo certificato da Dio stesso, e si impegnò alacremente a liberare le terre da quei poveri ottusi, capaci di pensare solo al domani o, al massimo, alla stagione successiva. Ne era certo. Nelle sue mani avrebbero fruttato una fortuna in panni di lana di alta qualità da vendere nelle Fiandre, dove avevano ben capito la differenza tra un affare e un peso morto.
In fondo sembrava semplicissimo. Siepi, staccionate e certezza di impunità sono sufficienti per obbligare la maggioranza alla povertà seguendo il capriccio di pochi. Spuntarono ovunque, qua, nel Norfolk, ma anche nel Suffolk, nel Lancashire, a Cambridge, nello Yorkshire e ovunque i Flowerdews di turno lo trovavano conveniente. Per chi non era dato saperlo.
Noi, come sempre, abbiamo assistito impotenti per molti anni.
Per decenni abbiamo sofferto la fame, il freddo e l’umiliazione di vedersi sottratta la possibilità di sopravvivere, un acro alla volta. È assurdo sentirsi privati della libertà pur trovandosi al di fuori di uno steccato, libero di muoversi, certo. Di quello e di morire lentamente.
Di questi tempi i paradossi sono diventati la norma.
Siamo cresciuti su campi traboccanti ricchezze da vendere a mercati lontani, mentre noi non avevamo farina per il grano. Tra recinti per tenere al sicuro le pecore dalla lana pregiata , mentre le altre venivano lasciate morire di fame a pochi metri dall’erba. Ogni cosa, purché il ricco cittadino possa continuare a scegliere un nuovo cappotto di lana di ottima qualità, tanto il povero non arriverà all’inverno comunque, visto che hanno recintato anche i boschi dove abbiamo sempre fatto legna da ardere.
Per decenni abbiamo pregato tutti i signori conosciuti, Dio, il Re e anche il Vescovo, di fare qualcosa per la nostra condizione meschina. Il nostro digiuno, ispirato solo dal bisogno anzichè da vera volontà di penitenza, non era stato evidentemente giudicato meritevole di intercessione, o forse anche al Vescovo e alla Regina piacevano le stoffe delle Fiandre, fatto sta che gli steccati avevano continuato a moltiplicarsi.
Alla fine, nel luglio del 1549, decidemmo di mostrare a lor-signori quanto le loro recinzioni si reggessero più sulla nostra mansuetudine che sul solido diritto. Alla fine ci convincemmo ad andare tutti insieme a risolvere il problema o, quantomeno, a smettere di sembrare impotenti.
Era il giorno della festa del Santo Patrono, Tommaso di Canterbury, il martire che aveva sfidato un Re per amore di giustizia. In quale giorno, se non in quello, potevamo sfidare un potere ingiusto? E da quali iniziare se non dalle recinzioni erette per saziare gli appetiti del nostro amato John, che aveva osato saccheggiare l’abbazia del nostro Santo?
Il poveretto, credendo ogni uomo fatto a sua immagine, alla vista di quelle roncole e quei forconi in cerca di riparazione, provò inizialmente a placare la nostra ira offrendoci denaro. Stupito nell’apprendere che anche un poveraccio possa saper rifiutare qualche moneta, provò allora a convincerci a punire altri ingordi, ben peggiori di lui. Ci parlò di un tale Robert Kett, uomo di campagna, di ingegno acuto e parola pronta che secondo lui aveva commesso delitti più urgenti. Non poteva sapere che Robert aveva già ammesso le sue colpe e abbattuto le sue recinzioni, per mostrare quanto facilmente si potevano spiccare. Per primo aveva riconosciuto l’ingiustizia e per primo l’aveva chiamata intollerabile. Robert era la nostra guida, ma lo sciocco John non poteva immaginare esistessero ricchi proprietari solidali per libera scelta con noi poveracci.
Dopo aver chiarito con i fatti quale fosse la nostra risposta ai suoi appelli, marciammo verso Norwich ingrossando le nostre fila ad ogni passo. Kett ci condusse a Mousehold Heat, per costruire un campo e restare al sicuro. Facemmo molto di più: costruimmo una comunità di pari, eguali e liberi. Per impedire che qualcuno potesse ridurre la nostra lotta a violenza irrazionale, ferinità o mancanza di devozione, decidemmo di scrivere le nostre rivendicazioni:
“Siamo oppressi da coloro che prendono i nostri terreni comuni, e non possiamo nutrire il nostro bestiame né coltivare la nostra terra come facevano i nostri padri.
Chiediamo che nessun signore di alcun maniero possa esercitare diritti su quei terreni.
Chiediamo che tutti i boschi e pascoli recintati siano aperti all’uso di tutti, come erano un tempo.
Chiediamo che il prezzo del pane sia equo e che si metta un limite alla speculazione.
Chiediamo che i mercanti non possano esportare il cibo prima che ogni popolano abbia di che nutrirsi.
Chiediamo che nessuno possa possedere più di 1.000 pecore, affinché i poveri possano avere pascoli per il loro bestiame.
Chiediamo sopratutto che nessun uomo libero sia più costretto a servire come schiavo o come servo a vita.
Tutti gli uomini devono essere dichiarati liberi, poiché Cristo ha redento tutti con il suo sangue.”
Arrivavano da tutte le contee al richiamo di quei 29 articoli, semplici e chiari nella loro potenza. In breve tempo diventammo 20.000. Arrivammo a controllare la città di Norwich, seconda solo a Londra per importanza.
Non poteva durare, non lo avrebbero permesso.
Tutto finì all’alba del 27 Agosto, in quello stesso anno. L’esercito reale Comandato dal Conte di Warwick in persona, dopo averci stanato da Norwich e braccato per giorni, ci spinse nelle piane ad est della città. Là, a Dussindale, il suo esercito di cavalieri e polvere da sparo travolse facilmente il nostro di contadini armati solo picche e qualche forcone.
Alcuni riuscirono a scappare per le campagne, più 3000 giacciono ancora su quelle colline, 1000 dovettero affrontare la giustizia del Re. Tra loro anche il nostro Robert.
Morì impiccato in catene dal muro del castello di quella che era stata la nostra patria, il 7 Dicembre.
Morì ringraziando Dio per essere morto in nome della giustizia.
Noi che eravamo scampati alla stessa sorte, fummo condannati a sopportare il corpo del nostro fratello esposto, visibile per mesi da chiunque passasse le mura dalla porta Nord. Lasciato appeso a decomporsi perché noi fossimo obbligati a ricordare.
La sottomissione per paura è pur sempre meglio di niente.
Ebbene noi ricordiamo.
Ricordiamo che la vera Giustizia risiede nella dignità di uomo, non nell’aula del Re.
Ricordiamo che può esistere la pace senza obbedienza.
Ricordiamo che la libertà non è un dono che si riceve, ma un diritto che si esercita.
Ora ricostruite pure le vostre sciocche recinzioni, sempre più alte e imponenti, con più soldati e tranelli.
Noi continueremo a ricordare.