- Non avrai alcun Profeta, alcun dogma, alcuna soluzione valida per tutti.
- Non nominare il nome della sostenibilità invano.
- Ricordati di non santificare te stesso.
- Onora il suolo povero, come quello ricco.
- Non sfruttare, usa.
- Non tradire la vocazione della tua terra.
- Non accumulare, quindi non rubare.
- Non mistificare le parole degli altri. Ascoltale anche se danno fastidio.
- Non valutare gli altri da quanto producono.
- Non desiderare l’habitat degli altri.
IL PRIMO COMANDAMENTO

È da preferirsi una disputa illuminante o la conferenza di un illuminato?
Se il fine è la ricerca della verità, forse, come prima cosa dovremmo stabilire un semplice punto di partenza: la verità perfetta è solo l’intuizione di un principio, di un’idea. La sua versione terrena dovrà necessariamente fare i conti con una moltitudine di condizioni particolari e caratteristiche specifiche. Sarà necessariamente un compromesso.
A meno che non si decida di voler ridurre la realtà, fatta di tempo, materia e limiti, alla sua versione migliore, perfetta e quindi perfettamente omogenea, pur adattarla alla nostra verità.
In questo caso correremo il rischio di trasformarci, da creature illuminate, in creatori di dogmi che possano ingabbiare ogni vezzo, ogni lusus, ogni deviazione dallo schema.
Può sembrare rassicurante, una soluzione pronta all’uso, universale, certa, incontestabile. Dovrebbe spaventare perchè nega necessariamente ogni singolarità.
Smettiamo di aspettare un Profeta che ci sappia indicare la via della salvezza o pretendere di averne trovato uno. Ormai è chiaro, sono solo l’alibi perfetto per non dover sostenere la difficoltà del dubbio, dell’eccezione che smentisce.
Senza un prescelto, siamo tutti egualmente responsabili di coltivare un’opinione.
Nessun Dio ci potrà liberare dalla schiavitù, o lo avrebbe già fatto.
IL SECONDO COMANDAMENTO
L’insostenibile sostenibilità del capitalismo
Sia ben chiaro, sappiamo che la perfezione è per i Santi e noi, sinceramente, li abbiamo sempre guardati con sospetto.
I Santi pretendono di assurgere a modelli proprio in virtù della loro perfezione, pur sapendola inarrivabile, proponendo a noi comuni mortali uno standard irraggiungibile già in partenza.
Se fosse a portata di tutti, cesserebbe all’istante di essere motivo di santità e ammirazione per pochi.
La santità è insostenibile; per questo deve essere eccezione e non regola, eppure si pretende praticabile dalle folle. È un trucco per farci sentire inadeguati, peccatori e a cercare una guida che ci conduca alla salvezza, così come ogni pretesa di sostenibilità che si dica compatibile con una crescita infinita, favoleggiando un consumismo etico, quindi una rivoluzione di cartone.
La sostenibilità, come la realtà, deve essere invece una questione tutta umana, intrinsecamente imperfetta, contraddittoria e piena di compromessi. Ognuno di noi cerca di rigettare quella parte del sistema che gli è più in odio o a portata di tiro: il lavoro salariato, la speculazione per profitto, la grande distribuzione come porto sicuro o la mafia delle etichette e dei bollini.
Si fa quel che si può, quando si può e con ben chiaro l’ammonimento: per continuare a combattere bisogna continuare ad esistere.
È sterile passare il tempo a giudicare reciprocamente il nostro grado di purezza o fedeltà alla causa. Se la santità è un trucco, smettiamo di vestircene o di pretenderla dagli interlocutori. Nessuno di noi è più santo o peccatore degli altri.
Ogni parola riversata in questo spazio ha come presupposto una semplice verità: nessuno di noi, non importa la fede immacolata che lo accompagni, può cambiare il sistema da solo, nessuno può pretenderlo e, al più, assistiamo a tentativi di compensarne alcuni degli squilibri.
In una realtà così vincolata ad un certo tipo di dinamiche, la critica costruttiva resta una pratica importante per riconoscere i tentativi del sistema di normalizzare quello che viene riconosciuto come corpo estraneo e che tenta di rigettare i condizionamenti.
Da sempre il potere coopta le pratiche antagoniste per renderle inoffensive. Così una pratica nata con le migliori premesse può facilmente contaminarsi e diventare terreno per “capitalisti fugghiaschi”, predoni travestiti da rivoluzionari e approfittatori della buona fede.
La strada per la sostenibilità è una questione talmente umana che non poteva essere esente da insidie, tradimenti, tendenze moralistiche, paternalismo e una buona dose di egoismi.
La critica e il confronto sono l’unico vettore di una continua evoluzione che tenga la barra dritta verso l’unica verità che ci sembra insindacabile:
Il Capitalismo non è e non può essere sostenibile perché, intrinsecamente, prevede una crescita infinita e una quota strutturale di disuguaglianza. Senza mettere in discussione produttività e profitto non si ha rottura ma continuità.
Se i limiti del mettere in pratica questo principio sono evidenti a chiunque non disponga di una rendita, cerchiamo almeno di essere chiari nelle parole.
Ogni pratica virtuosa che ci sforziamo di testare sarà immediatamente esposta a valutazioni secondo i margini di profitto, ibridata e attenuata dalla necessità di farla sopravvivere a questo sistema. Se questo è inevitabile, dobbiamo però avere il coraggio di ammetterlo ad alta voce, di riconoscere i limiti e i pericoli di questa condizione e accettare la validità di un’altra di segno opposto, se questa ha il medesimo scopo.
La sostenibilità diventa così non un obiettivo sistemico ma una pratica quotidiana, maledettamente umana, parziale, contraddittoria perché deve essere sostenibile allo stesso tempo per tutti e per chi deve metterla in pratica. Diventa una ricerca di equilibrio tra necessità differenti.
Quando parliamo di sostenibilità non parliamo di etica del consumo né ci riferiamo ad una visione più educata del profitto. Vogliamo esplorare pratiche fragili e piene di contraddizioni ma che cercano il conflitto con un sistema predatorio in espansione permanente. Imperfette ma attente a non diventare strumenti di stabilizzazione del nemico che dicono di combattere.
Veniamo quindi al nodo che ci tiene tutti in scacco. Una pratica è sostenibile solo se lo è anche economicamente, su questo concordiamo tutti. Ma non rivela una contraddizione, anzi. Economicamente sostenibile non significa necessariamente redditizia e quindi compatibile con il profitto, ma capace di dare continuità materiale a chi la sostiene. Una pratica sostenibile non deve impoverire chi la mette in pratica, richiedere un eroismo permanente o il martirio. Deve garantirne la dignità del lavoro e una qualità della vita accettabile.
La sostenibilità economica semplicemente non è un indicatore del successo ma la condizione minima per continuare il conflitto o la ricerca.
Il capitalismo ha prosperato e prospera perché maledettamente adatto, come le falene di Manchester color carbone. Ma il caro Darwin ci ha insegnato che il vantaggio evolutivo è relativo e contingente a date condizioni. Se queste cambiano si può rimettere tutto in discussione.
Se questa riflessione ha un senso non è quello di indicare errori o versioni corrette, ma stabilire un terreno comune.
La sostenibilità non è una proprietà individuale ma una questione collettiva, conflittuale, contraddittoria. Non può essere delegata né al mercato né alla coscienza individuale. Non è una scelta di consumo o una virtù privata. È un processo che si costruisce nel confronto e nella capacità di riconoscere i limiti senza trasformarli in colpa. È un tentativo continuo di cambiare le condizioni che fanno sembrare questo sistema inevitabile.
Siamo tutti esuli alla ricerca di forme di esistenza capaci di incrinare, poco a poco, la sua pretesa di essere l’unico orizzonte possibile.
Può sembrare rassicurante, una soluzione pronta all’uso, universale, certa, incontestabile. Dovrebbe spaventare perchè nega necessariamente ogni singolarità.
Smettiamo di aspettare un Profeta che ci sappia indicare la via della salvezza o pretendere di averne trovato uno. Ormai è chiaro, sono solo l’alibi perfetto per non dover sostenere la difficoltà del dubbio, dell’eccezione che smentisce.
Senza un prescelto, siamo tutti egualmente responsabili di coltivare un’opinione.
Nessun Dio ci potrà liberare dalla schiavitù, o lo avrebbe già fatto.